Una testimonianza di una nostra viaggiatrice, Daniela Giovannelli, appena tornata dalla partenza “Altro sud”. Grazie Daniela per le tue riflessioni su un Paese che cambia.
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La “Regione delle nazionalità e dei popoli del sud” è la più eterogenea nell’Etiopia che per darsi un ordinamento condiviso decise di organizzarsi come federazione su base etnica. Uno strano esperimento solo in parte riuscito ma che a distanza di più di venti anni mostra ora crepe preoccupanti, che mettono in crisi equilibri e una politica in affanno a ristabilirli. Il Sud è giù dagli altipiani del’acrocoro etiopico, da una storia antica segnata dal regno di Axum, il posto dove amhara e tigrini trovano una casa comune sotto il nome abissinia. Nella discesa dall’altopiano verso il sud i villaggi a mano a mano fanno saltare punti fermi: la liturgia della chiesa ortodossa e i suoi monaci e monasteri; la lingua derivata dal geez delle sacre scritture dell’unico vero cristianesimo africano autoctono; gli scialli bianchi e le processioni; l’estremo senso di identificazione con le zolle di terreno da passare di padre in figlio. Nel sud quei tratti culturali si miscelano con culti pagani e cerimonie di iniziazione; con salti di tori e totem propiziatori; con il vangelo soul della chiesa cristiana protestante che sovrasta le altre religioni monoteiste; con fiumi impetuosi e pesci, con decine di lingue locali, con piantagioni di caffè, con foreste rigogliose e deserti da allucinazioni, con l’idea che i recinti del proprio terreno debbano essere tanto vasti almeno quanto quelli che gli zoccoli del bestiame calpestano prima di trovare l’erba di un pascolo; e dove spesso l’acido del pane di falso banano, il kocho, contende alla sfoglia di pane di teff, l’engera, il nome di pane quotidiano. Awassa, dove un lago arresta nel blu il verde del Sidamo, fatica a essere la capitale di una regione tanto varia. Ci vogliono altri riferimenti: Andbir nelle montagne del Guraghe di uomini considerati scaltri ma anche troppo spregiudicati commercianti; Sodo nel Walayta dalle danze sgargianti come i loro vestiti; Arba Minch nel Gamo Gofa, frutteto d’Etiopia, dai ritmi blandi come quelli dei suoi coccodrilli nel lago Chama; Konso e i suoi terrazzamenti per coltivare, dove l’Unesco ha trovato il posto per piazzare una delle sue bandierine. E poi c’è Jinka, un avamposto di posto, un fortino gioioso di una zona di frontiera dove la musica che esce dagli amplificatori si stende sulle treccine imburrate e sulle perline di uomini e donne che vanno e vengono da villaggi persi tra il bush e le rive dei fiumi. Perché oltre Jinka c’è l’Omo River, uno degli ultimi misteri dell’Africa nera, che nel lago Turkana dove sfocia diventa quasi subito Kenya. La zona dell’Omo è un posto dove il Doctor Livingstone forse ora si annoierebbe (I suppose…) ma dove i piattelli labiali delle donne Mursi hanno significati più profondi di uno scatto fotografico. Jinka è la base di partenza per escursioni naturalistiche ed etnografiche che turisti, viaggiatori, antropologi sembrano talvolta affrontare con l’ansia di dovere vivere un’esperienza unica, alla ricerca della parola magica: “autenticità”. Ma in realtà l’autenticità non si fa afferrare; perché vola alta e quando qualcuno crede di averla catturata è già qualcosa di diverso, rattrappita e tutt’al più pronta per un museo. Forse l’unica autenticità possibile sta nella contemporaneità, in quello che succede, nello stare, poco o a lungo, con la gente. Gente che spesso si intravede appena dal finestrino di un fuoristrada ma che diventano compagni di sosta quando ci si ferma per un caffé in qualche barettino che è anche luogo dove si riempiono taniche d’acqua, dove si fanno affari sotto un albero, e dove seduti su sgabelli a tre gambe ci si stupisce di un’armonia naturale, dove i cavi elettrici volanti di una lampadina si confondono con la vita vegetale e dove quel quadro storto non si troverebbe a suo agio se fosse dritto. Gente che si incontra camminando tra la savana del Maze Park, sostando presso le case colorate degli Ari, tra i mercati dei Karo e degli Hamer; o su una barca lungo l’Omo River tra i villaggi dei pescatori Dessanech. E dormendo qualche volta in tenda, dopo avere attraversato al tramonto una foresta che sembra una messinscena delle paure ataviche dell’uomo ma che messinscena non è. E dopo l’incontro avverrà lo scambio? Non si può sapere, come nell’innamoramento non è cosa che avviene a comando, ma tra i Benna della valle dell’Omo, seduti attorno al fuoco, in una foresta, pensammo che mancava solo la parola per fare un poco di conoscenza, se non l’amarico almeno due parole d’inglese. Però loro cominciarono a fare i versi degli animali, e quando noi provammo a fare quello della mucca ci uscì fuori un muuu banale, inanimato come quello di un cartone animato. Loro fecero quello del vitello, della vacca, del bue, del toro e qualche variazione che aveva a che fare con gli stati d’animo: affamato, soddisfatto, arrabbiato… Forse avrebbero potuto andare avanti a oltranza, se si pensa che a qualche migliaio di chilometri di distanza, nella depressione dancala, ci sono circa cento aggettivi ed espressioni per descrivere lo stato del pelo del mantello di un cammello.
A Jinka, nel fortino di quest’africa tribale, ci si può arrivare comodamente in aereo, ma l’idea di un viaggio attraverso il Sud ha più a che fare con una tela di ragno che con una riga di righello, più con il giocare (viaggiare) per il gusto di giocare che per quello di arrivare; calcisticamente parlando, più con il tiki taka del Barcellona che con il contropiede dell’Inter. In questo viaggio non ci sono percorsi di trasferimento ma storie di gente da mettere insieme e la sensazione mai sopita che il nostro Occidente è solo uno dei mondi possibili. (Non sarà da tutti condivisibile ma lo scrittore Giorgio Manganelli dopo un viaggio in India scrisse: “Dovunque viaggerete, in Asia, sentirete l’Europa come una bizzarra invenzione, una cosa impossibile, un ricordo maniacale, il tentativo di non sapere che cosa è esattamente essere vivi”). L’Etiopia, come gran parte dell’Africa, conosce uno sviluppo impetuoso. Alcune contraddizioni sono finalmente messe alle strette mentre altre prendono il loro posto: con un occhio si vedono scuole e linee elettriche e con l’altro pescatori che lasciano le reti per diventare raccoglitori di canna da zucchero. Ma il nostro terzo occhio, quello della sintesi, fa fatica a fare il suo lavoro. Ma ci sono dei vantaggi nella volontà di vivere la contemporaneità, quello di ricucire pezzi di storie sparse e ritrovarsi con una storia intera in tasca. Ci penso dopo avere passato qualche ora con degli adulti di Jinka, che mi raccontarono dei loro figli e delle loro aspirazioni. Per arrivare a Jinka si fa una lunghissima pista polverosa nella savana che sale alla fine verso i villaggi colorati della gente Ari valicando un passo chiamato Senegal. Ci passano pochi mezzi a quattroruote: i soliti Cacciamalli e le quattro per quattro. Però quella strada pare il trionfo delle motociclette, marca boxer e bajaj, indiane e cinesi. Migliaia di moto che caricano tutto quello che possono caricare, fanno la spola tra villaggi dove ancora non è arrivata la benedizione dell’asfalto, ma già si ringrazia il cielo che mangiandosi un po’ di polvere ci si può muovere per visitare il parente vicino, trovare un buon mercato, affidarsi a una clinica, lavorare, studiare. Cambia la vita, una strada. Quelle motociclette hanno sostituito capre e buoi nelle idee di futuro dei giovani, che una vita da pastori e contadini come quella dei loro padri forse non vogliono più farla. I padri non capiscono più i loro figli ma li sostengono, e guardando una placida capra, da secoli per loro il miglior investimento possibile, pregano ogni giorno che quei figli motociclisti possano tornare casa dal lavoro con tutte le ossa intere.